L’Ashtanga Yoga così come insegnato da Pattabhi Jois combina tra loro una forma di respiro profondo e nello stesso tempo solo leggermente udibile, realizzato con la pratica dell’ujjayi pranayama, “chiusure energetiche” interne chiamate bandha, e punti di direzione dello sguardo (drishti) in sequenze di asana collegati tra loro dal vinyasa (sincronizzazione di respiro e movimento). Con una pratica continua si possono ottenere forza, elasticità e grazia di corpo e mente. Tramite la purificazione interna e un’esperienza che è anche meditativa, chi pratica l’AVY giunge ad una più profonda comprensione del Sé.
Il Tristhana: le fondamenta della pratica
In particolare, le fondamenta della pratica quotidiana dell’AVY second Pattabhi Jois si trovano nel metodo del tristhana, che comprende il respiro, le asana, e le drishti. Questi tre elementi riguardano tre livelli di purificazione: il corpo, il sistema nervoso e la mente, e vengono sempre eseguiti contemporaneamente. Vediamoli in dettaglio.
Le asana
Le asana purificano, rafforzano e donano elasticità al corpo. Ciascuna delle sei “sequenze” dell’AVY prevede un numero fisso di asana in cui si rimane di solito per la durata di cinque inspirazioni (in sanscrito: puraka) e cinque espirazioni (in sanscrito: rechaka). Il trascorrere un tempo piuttosto limitato in ciascun asana contribuisce anche al meditare sul carattere non permanente, transitorio, di ogni “forma” fisica, asana compresi, e a sviluppare il non-attaccamento a tali forme.
Nello stesso tempo, come già notato in precedenza, ogni asana dovrebbe avere il carattere della stabilità e della comodità, realizzando quindi ciò che Krishnamacharya chiamava “asana siddhi”, cioè padronanza della posizione e totale fluidità e regolarità del respiro in essa, con la consapevolezza del fatto che ciò che è realmente permanente e guida ogni cosa nell’AVY è, effettivamente, il respiro.
Il respiro
L’utilizzo di una tecnica particolare per la respirazione, chiamata ujjayi pranayama (traducibile come “estensione vittoriosa della forza vitale”), purifica il sistema nervoso.
L’ujjayi pranayama si esegue respirando solo attraverso il naso e contraendo lievemente la gola nella zona dell’epiglottide, determinando così il fluire controllato dell’aria sia nell’inspirazione che nell’espirazione. Il respiro verrà quindi dosato in maniera tale da adeguarlo all’intensità dello “sforzo” richiesto nell’esecuzione degli asana. L’attrito causato dal passaggio dell’aria attraverso la gola dovrebbe produrre un “sibilo” che, con l’affinamento progressivo di questa tecnica, dovrebbe essere udito soltanto da chi lo pratica. Il suono così prodotto aiuta anche a concentrarsi meglio sulla qualità del respiro e a correggerlo per farlo diventare lungo e regolare.
Ascoltare il suono del proprio respiro ha varie conseguenze: innanzitutto, si tratta di una tecnica per mettere in atto il pratyahara, cioè il quinto “ramo” dello yoga di Patanjali che significa “ritirare i sensi dal mondo esterno” o, più semplicemente, “andare dentro”. Quindi, ascoltare il proprio respiro aiuta a rivolgere l’attenzione al proprio interno e distoglierla dai suoni esterni, e ciò costituisce un aiuto per la meditazione.
Inoltre, il suono del respiro può insegnarci quasi tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere riguardo al nostro “atteggiamento” quando ci troviamo in un determinato asana. A volte il respiro può risultare stanco, affannoso, corto, aggressivo, o troppo veloce; riportandolo all’ideale di un suono piacevole e armonioso cominciamo a correggere quelli che sono atteggiamenti negativi o inutili.
Inoltre, la respirazione fatta praticando l’ujjayi pranayama determina un aumento del calore interno che favorisce la sudorazione e, con essa, l’eliminazione di vari tipi di tossine.
La drishti
La drishti, cioè il rivolgere lo sguardo verso un determinato punto di attenzione, purifica e stabilizza il funzionamento della mente, e aiuta ad instaurare e mantenere la concentrazione nel corso della pratica. Essa è quindi una tecnica per realizzare sia il pratyahara che il dharana (il sesto “ramo”, cioè la concentrazione). Il punto di attenzione a cui, secondo le regole dell’AVY, si ricorre maggiormente, è quello della punta del naso. Esistono poi altre drishti, come il centro della fronte, il cosiddetto “terzo occhio” (comunemente detto “spazio tra le sopracciglia”), l’ombelico, il pollice, le mani, i piedi ecc.
I bandha e il vinyasa: respiro e fluidità
Oltre al tristhana come appena illustrato, gli altri due elementi che concorrono a creare la sinergia già menzionata sono i bandha e il vinyasa.
I bandha possono essere definiti come “contrazioni” o “chiusure” di determinate parti del corpo che hanno un ruolo fondamentale per regolare il fluire del prana, cioè dell’energia vitale, quindi anche per garantire un’esecuzione corretta di asana e pranayama. La loro corretta esecuzione richiede un certo periodo di pratica, che consente anche di passare da un piano meramente fisico-muscolare ad uno più sottile, energetico.
Il primo bandha (mula bandha) si può tradurre come “chiusura alla base della spina dorsale”. Contraendo leggermente il muscolo che va dall’osso pubico al coccige, si crea un sigillo energetico che “chiude” il prana nel corpo e previene così la sua fuoriuscita dalla base della spina. Si dice che il mula bandha sposti il prana nel sushumna nadi, che è il canale centrale del corpo energetico e l’equivalente energetico della spina.
Il secondo bandha (uddiyana bandha), consiste in una lieve contrazione del muscolo transversus abdominis (il muscolo che attraversa orizzontalmente l’addome) ed è usato per attirare il contenuto addominale verso la spina dorsale. Se la parete addominale bassa è tenuta ferma e quella superiore è rilassata, il diaframma si muove su e giù liberamente e l’intero addome funziona come la camera di combustione di un motore, col diaframma nel ruolo del pistone. Questo produce una forte oscillazione della pressione sanguigna intra-addominale , che a sua volta rende sani gli organi addominali. Uddiyana significa “volare verso l’alto” e la pratica dell’uddiyana bandha consente quindi al prana di salire incessantemente verso l’alto attraverso il sushumna nadi. Questo bandha serve a dare fludità e leggerezza all’asana.
I bandha sono importanti per il vinyasa, quindi sia per il respiro che per il movimento. Il loro uso favorisce la concentrazione (dharana).
Nell’Ashtanga Vinyasa Yoga, il termine vinyasa indica la sincronizzazione di respiro e movimento. Ad ogni respiro (inspirazione o espirazione) corrisponde un movimento. Nel focalizzarsi sul lavoro con il corretto numero di vinyasa, la pratica diventa concentrata, il respiro si fa ritmico, il corpo si rafforza e la mente diventa calma.
L’idea centrale dell’AVY è di spostare l’accento dalla posizione al respiro e, così facendo, comprendere che le varie posizioni, come ogni altra “forma”, sono solo transitorie, non permanenti. L’obiettivo dello yoga è di arrivare a “conoscere” ciò che è senza forma (pura consapevolezza). Anche per questa ragione è importante organizzare la pratica in un modo tale da evitare che ci si leghi a ciò che è transitorio.
Grazie al vinyasa, l’Ashtanga Vinyasa Yoga diventa una forma di meditazione in movimento, oltre che un validissimo esercizio di respirazione.
Ashtanga yoga, Valbusa, Marchisio, Macro Edizioni
L’opera di Gian Renato Marchisio e Stefania Valbusa regala un nuovo respiro all’Ashtanga Yoga, è uno strumento importante per chi pratica e desidera ampliare la comprensione sull’essenza di questa grande tradizione yoga. Un libro utile per ogni insegnante e per chi vuole avvicinarsi a questa pratica.